Anno 1953 – Giuseppe Lega Racconta

Anno 1953 – Giuseppe Lega Racconta

1953

Una mattina il babbo mi chiese di andare con lui a piedi, “a prendere il motore” (ndr. per i romagnoli motore è la motocicletta) e io lo seguii eccitato dall’avventura. Il meccanico che glielo vendeva non era lontano e ci arrivammo presto.

Era bello, lucido, una moto Bianchi “Freccia d’oro 125” ma che poteva avere già passato molte mani perché la vetusta targa era “RA 803.” Andò in moto dopo qualche pedalata e tornammo a casa trionfanti.

Con questo mezzo potevamo recarci facilmente a visitare gli apiari in moto piuttosto che in bicicletta.
Ma il babbo cominciò a dubitare subito sulla affidabilità di questa motocicletta a causa della difficoltà della messa in moto e decise di venderla.
La acquistò un contadino che al primo colpo di pedale, miracolosamente, la mise subito in moto.

Il babbo (Armando) mi disse in seguito di avere incontrato in piazza il compratore che, sconsolato, gli disse:

sarei stato più contento se mi fosse morta una bestia nella stalla.

Per i nostri spostamenti cominciavamo ad aver bisogno di un piccolo automezzo nostro, mio padre, tramite un conoscente camionista trovò una Fiat 500 a furgone, di seconda mano ovviamente, presso un meccanico a Forlì e assieme al camionista andammo a ritirarla una sera.

Mio padre non aveva neppure la patente ma era sicuro che l’avrebbe ottenuta facilmente e nel frattempo si procurò questo piccolo furgone, da noi figli battezzata “Gioconda”.
(dentro di me facevo i calcoli che avrei potuto guidarla solamente a 18 anni, quindi tre anni dopo).

Questo piccolissimo furgone diventava, la domenica, anche l’auto di famiglia e con l’aggiunta di due panche di legno ci consentiva di trasportare tutta la famiglia nella gita fuori città.

Una notte d’estate, verso le 4 sentimmo suonare il campanello e mio padre si trovò di fronte Vincenzo Samorì, un nostro cliente di Modigliana (Forlì), un apicoltore professionista, possessore di qualche centinaio di alveari, che gli chiese, in lacrime, di aiutarlo.

Era accaduto che il grosso camion sul quale aveva caricato una parte dei suoi alveari che trasportava quella notte dalle Marche alla Romagna, era stato tamponato da un altro camion alle porte di Faenza ed era successo un macello.

Gli unici apicoltori disponibili sul posto eravamo noi e pensò bene di coinvolgerci.

Corremmo subito, con la Gioconda (la nostra auto), sulla via Emilia, in direzione di Forlì, dove trovammo il traffico ovviamente bloccato, ma la polizia stradale non ci voleva fare avvicinare. Quando finalmente capirono che eravamo noi che dovevamo intervenire, ci lasciarono passare.

Nonostante l’oscurità lo spettacolo era terribile, gli alveari della seconda metà del camion erano praticamente incastrati uno nell’altro.

Fortunatamente c’era un campo abbastanza libero oltre il fossato e cominciammo a trasportarvi tutto quello che ci capitava sottomano.

Molto spesso era una melma di covata, api, miele e pezzi di telaino.

Quando arrivammo a qualche arnia che era ancora utilizzabile cominciammo a infilarci dentro anche i favi, alla rinfusa.
Fu un lavoro veramente massacrante, tutto sulle nostre spalle perché le api tenevano lontani tutti i possibili volontari.

Avevamo portato con noi una certa quantità di maschere ma nessuno si prestò a darci un aiuto e li capimmo.

Se non ricordo male, sul camion c’erano 80 alveari e il proprietario ci disse in seguito che almeno la metà fu lentamente recuperata.

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