Anno 1944 – Giuseppe Lega Racconta

Anno 1944 – Giuseppe Lega Racconta

1944

Dopo la liberazione, (Faenza è stata liberata il 17 Dicembre del 1944) quando siamo potuti rientrare a Faenza, abbiamo trovato la casa di via Ravegnana ancora in piedi, molto danneggiata nel tetto che era stato sfondato da una bomba (i primi bombardamenti su Faenza erano cominciati il 2 Maggio del 1944 come aveva diligentemente annotato la mamma Angelina nelle sue memorie), e alcuni pavimenti crollati per il peso delle macerie ma con alcune stanze ancora agibili nelle quali ci siamo sistemati come abitazione.

La nostra casa era situata a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria che, essendo un obiettivo strategico, fu bombardata quasi fino a farla sparire e qualche bomba era finita anche nei paraggi.

Il procurarsi il cibo in città era molto più difficile che in campagna e ricordo benissimo che la mamma ha “macinato” non ricordo con quali mezzi, (forse un macinino per il caffè) dei fagioli secchi per ricavarne farina e poter preparare per cena qualcosa che somigliasse ad alcune piadine.

Le api, Armando (mio babbo), le aveva trasportate in periferia a Faenza, nel piccolo podere dove vivevano i parenti di mia mamma e un pomeriggio andammo a visitarle, in bicicletta, lui davanti e io dietro con la mia biciclettina che il babbo mi aveva regalato, quasi nuova, di una forma strana e di colore celestino.

Durante il ritorno in città, all’incrocio di corso Mazzini con via Cavour fui investito da un camion militare sopraggiunto a velocità folle.

Ricordo ancora molto bene le due ruote del camion che mi sono passate sopra il bacino e le gambe; mio padre che mi seguiva ed aveva visto la scena era certo di raccogliermi in due pezzi. Quando mi sono ripreso ero disteso, seminudo, sulla balaustra di marmo della loggia degli Infantini, a pochi metri di distanza.ù

E un medico militare mi stava visitando per capire quali fratture avessi subìto, ma scuoteva il capo, dubbioso. Mi mise in piedi, a terra, e mi chiese di camminare e io lo feci, tra lo stupore di tutti.

In sostanza la mia brutta bicicletta, tutta accartocciata, e un attento angelo custode, mi avevano protetto salvandomi la vita.

Armando, avendo già fatto la sua scelta, doveva cominciare a fabbricare arnie e allora, individuato un commerciante di legname, con un carrettino attaccato dietro la bicicletta andavamo a scegliere le assi di legno adatte, poi andavamo da un artigiano che aveva salvato dai bombardamenti alcune macchine utensili per piallare e segare il legno, ci facevamo tagliare le assi e cominciammo a fabbricare le prime arnie e telaini.

Parlo al plurale perché, pur avendo solamente 7/8 anni già inchiodavo i telaini, prima di poter correre in cortile a giocare coi compagni.

In seguito, cercando presso amici e alcuni meccanici che avevano riaperto un po’ di attività, il babbo riuscì a fabbricarsi una macchina per la lavorazione del legno, tutta l’intelaiatura fatta di legno di pero, con l’albero della pialla e sega acquistato da un ingegnere che lo aveva conservato in cantina, un motore elettrico di recupero e tanta fantasia.

In questo modo ci liberammo dalla dipendenza da altri artigiani falegnami e questo fu un gran giorno!

Da quel momento le arnie furono solamente “Lega”.


Per la finitura delle arnie andavo a comperare la vernice in un negozietto (Errani) in centro città (Faenza), dove il prodotto mi veniva preparato sul momento. Veniva usata una polvere “ocra” messa in un mastello e, per mezzo di un bastone, miscelata con “olio di lino cotto”.

Il colore ocra era molto usato in Romagna e quasi tutti gli infissi a casa dei contadini erano verniciati con questo colore.

A ricordo di questa usanza abbiamo mantenuto lo stesso COLORE OCRA fino ad ora.

Accadeva di frequente che qualche cliente ci chiedesse alcune arnie nuove ma costruite sulle misure di quelle che già possedeva (molte volte autocostruite con materiale di recupero). Ne abbiamo accontentato alcuni ma poi ci siamo accorti che tale comportamento sarebbe stato micidiale.

Abbiamo fatto quindi una indagine fra gli apicoltori di molte regioni italiane più esperti e quotati chiedendo se il modello “Dadant” a 10 favi che noi avevamo scelto fosse quello giusto e condivisibile ed abbiamo avuto la conferma.

La scelta della “Dadant” come modello base per le arnie italiane, che allora fu un po’ una imposizione, oggi può essere ricordata come una mossa strategica.

Da quel momento la nostra arnia a 10 favi fu chiamata “STANDARD”.

Infatti la “Dadant” si rivelò l’arnia più adatta alle esigenze dell’ape e degli apicoltori italiani, questo permise la sua diffusione e la pressoché totale unificazione del materiale, con evidenti vantaggi per la razionalizzazione e la redditività dell’apicoltura.

Oggi il modello “Dadant” costituisce il 99% delle arnie utilizzate in Italia.

Senza vanagloria si può ben dire che, grazie a Lega, l’Italia è l’unico paese in Europa che ha le arnie di una misura sola, la Dadant.

Ogni tanto mi ritorna in mente un fatto che non ho visto io personalmente ma mi è stato raccontato da mio babbo come una cosa che ha vissuto con molto rischio e spavento. Non riesco a collocarlo in una data precisa ma è certamente avvenuto quasi subito dopo al nostro ritorno a Faenza alla fine della guerra.

Mio babbo praticava già il nomadismo con l’apiario e si faceva trasportare gli alveari sulle fioriture collinari una volta esaurite quelle di pianura.
Lo vedemmo tornare a casa una mattina, tutto stracciato, e ci raccontò che la persona che aveva incaricato del trasporto delle api su di un furgone a tre ruote, ad un certo punto, in discesa, aveva perso il controllo del mezzo che aveva preso una velocità fortissima incontrollabile.

Mio babbo che gli era seduto di fianco, visto il pericolo, scelse di saltare fuori dal motocarro ma nel frattempo il guidatore, per rallentare l’andatura, decise di sterzare contro la montagna e mio babbo rimase incastrato proprio lì sotto.

A riprova della immensa fortuna che aveva avuto nel salvare la pelle ci mostrò il cappello che portava sempre in testa, tagliato di netto in due parti.

In quel periodo di febbrile ripresa si spargeva la voce che a Faenza c’era uno che fabbricava le arnie e diversi agricoltori che avevano già praticato questa attività prima della guerra (ed erano tanti perché a casa di molti agricoltori, dietro al pagliaio qualche alveare c’è sempre stato, per produrre il miele per la famiglia), cominciarono a chiedere anche lo smielatore e il maturatore.

Occorreva quindi cominciare a pensare anche alla meccanica oltre che alla falegnameria.

Il babbo era venuto a sapere che a Bologna il venerdì, giorno di mercato, gli apicoltori di una certa importanza nelle provincie emiliane si trovavano nel bar di piazza Roosevelt per discutere dei vari problemi, venivano anche i commercianti di miele e i produttori di fogli cerei.

Cominciammo a partecipare anche noi prendendo la corriera del venerdì mattina per Bologna.

E l’occasione era buona per farci conoscere ma anche frequentare un mercato della meccanica usata (La Montagnola) dove trovammo una piccola quantità di ingranaggi conici, in ferro, perfetti per produrre i primi smielatori.

La lamiera (allora era disponibile solamente quella zincata) la trovavamo in fogli di 100×200 cm presso Todeschini, l’unica ferramenta a Faenza dove si trovava di tutto.

Non oso pensare a che guai incontreremmo se oggi provassimo a fabbricare qualcosa in lamiera zincata destinato al contatto con gli alimenti.

Andavo a comprarla, 4-5 fogli per volta, la caricavo arrotolata sul solito carrettino trainato dalla bicicletta, passavo dal lattoniere Cavina dove me la facevo tagliare a misura con la grande cesoia manuale e poi tornavo nella nostra mini-officina dove l’avremmo trasformata in smielatori e maturatori.

Le dimensioni, tuttora mantenute, del diametro Ø 63 cm sia dello smielatore “Falco” tangenziale per 4 favi da nido che del maturatore da 400 Kg sono semplicemente dovute al fatto che abbiamo usato per intero lo sviluppo dei 200 cm della lamiera a disposizione.

Per le saldature dei cerchi e delle gabbie ci servivamo di un saldatore che aveva una botteguccia non lontana da noi, ma poi mio babbo chiedendo in giro se si trovasse una saldatrice elettrica usata venne a sapere che c’era un elettricista che ci poteva aiutare.

Questo elettricista (il sig. Dugini) molto ingegnoso, riuscì a combinare un motore elettrico, ovviamente molto usato, con una dinamo di un carro armato e così anche noi avemmo la nostra prima saldatrice elettrica.

Le gabbie degli smielatori erano formate da una intelaiatura di piattina di ferro di 3×15 mm, verniciata di colore alluminio, sulla quale veniva fissata per mezzo di rivetti una rete a maglia quadrata, legata con filo di ferro. (vedi sulla destra della foto numero 4).

Le Immagini

lega apicoltura racconta - anno 1944 - la nostra casa
1 – La nostra Casa a Faenza
lega apicoltura racconta - anno 1944 - la bicicletta di Giuseppe Lega
2 – Giuseppe Lega e la Bicicletta che gli ha salvato la vita
lega apicoltura racconta - anno 1944 - infanzia e apicoltura
3 – Smielatore Lega di quegli anni
lega apicoltura racconta - anno 1944 - l'officina Lega nel 1944
4 – L’officina Lega in negli anni ’40 – Sulla destra una gabbia per smielatori

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